Corrado Piancastelli
LO SPECCHIO ROVESCIATO: AGGIUNGERE SIGNIFICATI RIDUCENDO LA PAROLA.
Si può suggerire a qualcuno una modalità di percezione dello Spirito senza che l’altro se la sia guadagnata, ma semplicemente per aver posto la domanda?
Continuamente, nei seminari e nei gruppi di lavoro, mi viene rivolta questo tipo di domanda che riassume anche l’ansia di identificare una interiorità congiunta sia con la soggettività che con la categoria spirituale del discorso.
La soggettività, ovviamente, si fonda con l’identità, rende questa cosciente, le conferisce il senso e il valore: questi due principi sono ciascuno il rovescio dell’altro. Infatti nulla sarebbe l’identità se la staccassimo dalla coscienza che, nella specie umana, costituisce la soggettività di colui che afferma. E nulla sarebbe la coscienza interiore se non possedesse il cemento coesivo dell’identità.
Tuttavia non andremmo molto lontano se costruissimo una definizione dello Spirito o dell’Anima (termine che prediligo, soprattutto per motivi onnicomprensivi ed estetici o anche perché poco connotato di senso religioso) secondo la tecnica semantica dell’aggiunzione linguistica e concettuale. Infatti si usa aggiungere, per esempio, parola a parola, predicato e attributo, fino a trasformare la parola in una complessità linguistica e semantica sia in senso puramente grammaticale e sintattico che metaforico, come hanno fatto tutte le teorizzazioni filosofiche, psicologiche e teologiche.
Ma più si aggiunge e più le parole accumulano dati di senso e i concetti riverberano visioni antropomorfiche e impure che nell’intenzione dovrebbero chiarire ma che invece, nel contesto dell’intuizione che dovrebbe sorreggere il discorso, rendono sempre più materiale e gravosa questa immagine immateriale che dovrebbe costruire la realtà oggettiva dell’Anima.
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Come può essere chiara l’intuizione dell’interiorità nel fragore delle parole che si addensano le une sulle altre come magma lavica su altro magma?
«La meta più elevata di questa vita è rimanere in silenzio e lasciare che Dio agisca e parli in te», ha detto Maestro Eckart, il mistico filosofo tedesco del tredicesimo secolo. E ancora «Quando le facoltà sono state del tutto ritirate dalle loro forme e funzioni corporee, allora è questa Parola che parla. Ecco perché il saggio dice: nel mezzo del silenzio fu pronunciata in me la parola segreta. Più sei in grado di ritirare interiormente le tue facoltà e di dimenticare le cose e le immagini che ti porti dentro, insomma più dimentichi il creato, più sei vicino a questo evento e più diventi ricettivo… Per raggiungere l’interiorità si devono raccogliere le proprie potenze in un angolo, per così dire, dell’anima, dove separati dalle immagini e dalle forme, si sia in grado dì operare. In questo silenzio, in questa quiete, si ode il verbo. Non c’è un metodo migliore del silenzio della quiete, per avvicinarsi a questa Parola: la possiamo ascoltare e conoscere nel modo giusto pro-prio se rinunciamo a conoscere. A colui che non conosce nulla essa viene rivelata chiaramente».
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Alla nudità dell’intuizione si giunge spogliandosi del linguaggio e non rivestendosi di rinvii e stereotipi filosofici. Ricordiamoci che il linguagggio può, in questa circostanza, solo spiegarci perché non si può spiegare ciò che è inspiegabile. In tale cifra l’intuizione nuda è povera e sola, come unità linguistica che non può concedersi, in quanto vergine e chiusa, nè al discorso che parla di lei, nè al filosofo affabulatore, ma piuttosto al movimento osceno e prensile del poeta: a costui l’intuizione si apre come valva e si dischiude e si spinge per ricevere come carne che si salda a carne. Ecco perché Husserl parla di silenzio come metodo che addirittura Heidegger definisce «tecnica» contrapponendo un silenzio come «abitare poetico».
Se, dunque, provasssimo a svestire e cioé a sotrarre, invece di aggiungere? E un primo test di spoliazione del linguaggio. La seconda prova dovrà essere quella di dare linguaggio al silenzio ovvero di render intellegibile il tacere che si sviluppa al di là della parola.
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Prova di conversazione
Io: Tu pensi che stabilisco un rapporto con te perché hai quella faccia, quei capelli, il nome e cognome che hai? Avresti sempre la consapevolezza di te se la tua individualità sociale fosse diversa, per esempio se invece di chiamarti Luca ti chiamassi Angelo? Se avessi un’altra faccia e i capelli neri al posto di quelli che hai, sentiresti di avere una coscienza diversa?
Luca: Credo proprio che mi sentirei sempre io. Tanto più che, nel risponderti, io non mi sento fisicamente, non mi vedo neppure allo specchio, quasi non ricordo la mia faccia…
Io: Se tu non avessi neanche i cinque sensi, se tu fossi muto, sordo e paralitico, avresti sempre la consapevolezza della tua individualità cosciente?
Luca, riflettendo: Si, l’avrei sicuramente.
Io: E credi che tu continueresti ad essere in relazione con me?
Luca: Lo credo.
Io: Se vivessi in una situazione fuori del tempo e dello spazio, per esempio in una navicella spaziale, e se non avessi nel cervello la storia del mondo in cui vivi e quella personale della tua esistenza, sentiresti di essere tu oppure non ti riconosceresti, cioè saresti un estraneo a te stesso?
Luca: Credo proprio che continuerei a sentirmi io. A volte mi capita, la notte, di svegliarmi con la perdita dello spazio e del tempo, ma sento subito che sono sempre io…sono sempre io anche se disorientato per qualche istante, ma mai estraneo a me stesso.
Io: E se tu avessi le tue doti negative e positive, i tuoi vizi e le tue virtù, i tuoi progetti e le tue pigrizie, i tuoi istinti, i tuoi desideri, se tu fossi nato figlio di nessuno, abbandonato per strada non saresti ancora tu?
Luca, sempre più pensoso: Si, sarei sempre io.
Io: Ma perché saresti sempre tu? Ora te lo dico: saresti sempre tu perché il soggettto che sente di essere se stesso non è identificabile o interscambiabile con le cose, i ruoli e le funzioni che abbiamo appena elencate. Infatti sei sempre «tu» che osservi e valuti queste cose o, detto in maniera diversa, c’è sempre un agente soggettivo (cioè tu) che si considera autonomo rispetto alle sue stesse qualità e ‘funzioni. É importante, in questa meditazione, avere chiaro che le qualità e le funzioni sono attributi e non soggetti e come tali non devono essere interscambiati, benché siano fra loro strettamente ma non necessariamente correlati: infattti, come appena abbiamo dimostrato, gli attributi possono essere sottratti alla coscienza senza che questa ne risulti mutila o deformata.
- sei “tu” che “sai” di non essere un nome e un cognome.
- – sei “tu” che “sai” di non identificarti nella tua faccia e nella tua voce
- sei “tu” che non ti identifichi nei tuoi sensi, nel tuospazio-tempo o nella storia del mondo .
- sei “tu” che giudichi le «tue» doti negative e positive.
- Sei “tu” a sentirti di essere ,anche se sei figlio di nessuno.
Insomma è un soggetto , è sempre un soggetto che evoca, chiama e riconosce i suoi attributi e questo non può essere confuso con ciò che chiama, e con ciò che sente perchè è un soggettto giudicante e percepiente. Quindi sei tu che osservi una parte di te che è rappresentata proprio dalle qualità e funzioni che sono esterne al tuo “tu”, cioè al tuo sentirti un soggetto cosciente che pensa in sè il proprio sè o dunque si autoriconosce.
Separando gli attributi dal soggetto si può giungere nei luoghi interiori in modo che ciascuno resti nudo nella sua esistente appartenenza. In questo modo è possibile pensare al proprio corpo disegnandolo sullo sfondo della propria esternità.
Luca: L’Anima è, dunque, nel silenzio dei corpi e appare quando tace il cervello razionale e, tacendo, il soggettto che ne resta si pone all’ascolto. Colui che ascolta il proprio silenzio e lo riconosce è qualcuno che si pone al di là del silenzio stesso e colui che realizza il proprio silenzio è l’Essere che identifichiamo come l’Anima nostra.
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In una Upanishad si racconta di «due compagni alati, due uccelli posati sul ramo di un albero. L’uno mangia i fruttti, l’altro li guarda Quei due uccelli sono le due parti della nostra anima». Commenta Simone Weil (in «Attesa di Dio»): «Se l’aver mangiato un frutto ha rovinato l’umanità, la salvezza sarà nell’atteggiamento contrario, nel guardare un frutto senza mangiarlo». Ma l’attenzione contemplativa a cui accenna Simone Weil, cioè l’osservazione delle cose e delle persone privi del desiderio di utilizzarle, non è che una delle interpretazioni dell’Upanishad. I due uccelli che indicano la nostra Anima si possono anche leggere in modo opposto. Cioè l’Anima nostra contemporaneamente e separatamente, opera e osserva il suo stesso operato. C’è una parte che contempla, oltre che il mondo esterno, anche il suo stesso operare, cioè la sua azione nel mondo.