D. – Potrei partire stasera da un argomento che può sembrare banale, ma che può avere sviluppi interessanti; argomento centrato sulla donna, e su una certa differenza tra uomo e donna – che cade sotto l’osservazione – tra il metodo di portare avanti la vita in genere.
Direi che oggi la donna affronta con maggiore sicurezza la vita, un certo programma esistenziale; è in un certo senso meno oscillante dell’uomo, più convinta di quello che fa. Sa quello che vuole, e quindi sembrerebbe che questo dovesse avere una controparte nella struttura animica, a parte naturalmente la posizione sociale diversa e, in senso ancora più collaterale, l’aspetto biologico che ormai è diventato un po’ un luogo comune, cioè quello del sesso debole, che invece è forte, e viceversa. Più che a questo mi riferisco proprio al senso più preciso che ha la donna di quello che deve fare, come se avesse richiami più netti, più continui nella sua sfera, a quello che ha scelto di fare in questa vita. Da questo possiamo forse risalire a delle motivazioni non solo di ordine animico, ma anche a particolari esperienze scelte dallo Spirito.
A. – Posta la premessa che spiritualmente non si pone minimamente il problema, in quanto non c’è sesso, è chiaro che nella scelta dei tipi di incarnazione prevalgono nelle decisioni dello Spirito anche gli svolgimenti diversi delle due vite, come uomo e come donna, quindi ci si struttura anche in un certo modo per affrontare una serie di situazioni che sono diverse nei due casi.
C’è però una premessa importantissima che devo fare subito: tra uomo e donna non c’è differenza dal punto di vista dell’esperienza: voglio dire che le esperienze che passano allo Spirito “non hanno sesso”. Sembra che l’esperienza dell’uno e dell’altro sesso siano diverse, invece no, non nelle modalità – perché possono essere diverse – perché, come già sapete allo Spirito giunge un segnale informativo, non giunge una notizia o un fatto. Questo significa che i segnali dell’esperienza del maschio e di quella della femmina tendono ad andare in parallelo, sino a unificarsi. Ora si può dire che un’esperienza passi attraverso una psicologia femminile e una attraverso una psicologia maschile, per cui di fronte alla stessa cosa sembra che ciascuno – elaborandola diversamente – ne tragga un’esperienza diversa. Bene no, le differenze, se ci sono, non riguardano i sessi, ma esclusivamente il diverso atteggiamento nei confronti dell’esperienza, e questo diverso atteggiamento, se può essere dato dalla diversità dei sessi, avviene anche all’interno dello stesso sesso, per cui una determinata esperienza, anche se fatta da tutti gli uomini, si trasforma in ognuno in un segnale di diverso potenziale. Di fronte all’esperienza il sesso non conta, ma conta l’atteggiamento e il modo di approccio all’esperienza: riflettete bene su questo fatto perché, detto così, può non trovare subito in voi un’accettazione che in fin dei conti sia piena e completa, inquantoché voi pensate che le esperienze sono diverse e che diversamente digerite diano diverse informazioni allo Spirito.
La questione dell’assimilazione delle “appercezioni” di queste esperienze in realtà esiste, ma non dipende dal fatto di avere un certo sesso, quanto, semmai, da quello di essere di un determinante sesso per affrontare l’esperienza in maniera diversa; ma poiché all’interno dello stesso gruppo omogeneo, femminile o maschile che sia, un’esperienza viene affrontata in modo radicalmente diverso da individuo a individuo, noi non poniamo come pregiudizio una differenza di sesso, ma una differenza di domanda e di risposta nei confronti dell’esperienza.
Naturalmente noi non possiamo dire che una determinata situazione, storica, sociale, economica, psicologica aveva posto la donna in una posizione di richiedere meno e di avere quindi minori risposte, limitando certe esperienze; in compenso, quello stesso tipo di donna sviluppava altri tipi di esperienza, per esempio, quella della maternità, della famiglia, della cura dei figli, della cura del marito eccetera… Oppure una determinata esperienza come sottomissione nel rapporto tra uomo e donna, e via di seguito. Quindi certe differenze venivano a determinarsi, ma insisto nel discorso precedente: tali differenze non provenivano dal sesso, ma da ciò che la società imponeva a quel determinato sesso, sicché non era un processo di azione e reazione nato dal sesso, ma dalle condizioni sociali che relegavano quel sesso in un determinato ruolo. Se si fosse capovolto il ruolo, avremmo avuto uno stesso effetto.
Il fatto che la donna sia stata un essere che ha svolto particolari esperienze di tipo familiare, di tipo intimistico, romantico, non è dipeso dal fatto di essere donna, quanto dal fatto che l’uomo l’aveva relegata a quel ruolo. Sgombrato il campo, sia pure sommariamente, da questa pesante ipoteca sul discorso che avrebbe irrimediabilmente posto la donna su di un piano inferiore rispetto all’uomo, osserviamo un altro aspetto del tema.
La questione che la donna sia un essere debole nei confronti dell’uomo è naturalmente un fatto del tutto precario, accidentale: in realtà, sulla Terra, la distribuzione dei beni e quella dell’uso della Terra non pone in gran rilievo attività di tipo inferiore o di tipo superiore; ciascuna svolge un suo ruolo che è importante quanto un altro; ora può darsi che la donna non abbia sviluppato fasce muscolari adatte a spaccare le pietre, ma questo non significa che sia più debole, significa semplicemente che dal punto di vista umano può svolgere altri lavori, e questo si verifica anche tra gli uomini: vi sono uomini spaccalegna e uomini che non hanno la forza di alzare una sedia, così tra le donne c’è la contadina che è forte e c’è la donna di città che è più debole, dipende dalla modalità di vita, non da una differenziazione di valori per cui si possa dire che l’uno è più forte e capace dell’altro.
Ma vengo al punto nodale della domanda, e cioè a quella che viene considerata una sorta di “fissità” del programma che viene portato a termine con una maggiore incisività, diciamo anche in linea retta e più direttamente.
In qualche modo la donna è più tenace nel perseguire certi obiettivi, nel tentare di raggiungere certe soluzioni rispetto all’uomo (non sempre naturalmente, ma prendiamo una media), il quale è invece più divagante, meno incisivo, meno rigido. La donna ha una maggiore rigidità di tipo psichico. Devo dire, però, che questo dipende sempre dal discorso che abbiamo fatto, e cioè di essere stata relegata a un ruolo subalterno; una volta che sono venute a cessare molte cause che costringevano a tale ruolo, si è creato una sorta di lento riadattamento della psiche femminile a un ruolo diverso, al quale essa non era atavicamente preparata, ed è chiaro che nell’effettuare una scelta all’interno di questo ruolo al quale non era preparata, la donna proceda psicologicamente per selezione; cioè la dispersività si riduce al minimo in una donna la quale, orientata psicologicamente verso una scelta o delle scelte e non avendo ancora la capacità di effettuarne molte, finisce col sceglierne alcune, perseguendole e seguendone l’itinerario con una sorta di fissità, o anche di capacità o di valore, se vogliamo, maggiori di quelli dell’uomo.
In altri termini la donna risulta ancora meno distratta e distraibile perché, da una parte vi sono le potenti molle istintive della maternità e del suo ruolo, che la legano a certi obiettivi e a certi programmi, facendole dunque assumere un ruolo dal quale tutto sommato non vuole scadere del tutto, quindi è già questa una sorta di parabola che la donna segue per sua natura e soprattutto per abitudine ereditaria; a questo viene ad aggiungersi naturalmente anche una certa destrutturazione mentale che si forma in concomitanza con la dinamica di questa parabola, per cui tutte le altre scelte finiscono col porsi in parallelo e funzionano in base alla stessa dinamica che si è sviluppata per il ruolo di tipo femminile, che poi è sempre legato a quello materno. Infatti, la donna per istinto tende sempre più a un ruolo di tipo materno, almeno in un certo periodo della vita, piuttosto che a un ruolo più tipicamente femminile; questo naturalmente è sempre il portato di tutta la situazione storica anzidetta, inquantoché il ruolo materno viene assunto inizialmente a titolo provvisorio, cioè finché il bambino ha una certa età; però, in definitiva, la donna se lo porta dentro fino alla vecchiaia, non rinunciando più a quel ruolo che si è fissato nella sua psiche; ed è chiaro che questa sorta di rigidità fa collegare tutte le altre attività e scelte in una sorta di empatia, per cui anch’esse assumono quella rigidità che è di tipo più o meno nevrotico, e che è presente in misura maggiore nella donna anche in concomitanza con un fondo di nevrosi isterica che esiste in quasi tutte le donne, sempre a causa di quel ruolo assunto storicamente; che l’ha deprivata della femminilità primaria facendo emergere quello di tipo materno, che non è un ruolo definitivo nella specie biologica, ma che in lei è diventato definitivo per inerzia e quindi nevrotizzante.
D. – Vorrei sapere quando si arriva alla coscienza che un certo programma si è fermato, bloccato, determinando una vita puramente vegetativa.
A. – Anzitutto se c’è un blocco di questo genere vuol dire che c’è anche una sua causa. In realtà l’io non si blocca se non a causa di una nevrosi, perché la parabola della vita si effettua secondo una utilità; cioè, in altri termini, se veramente il programma di una certa persona fosse finito, in un modo o nell’altro verrebbe la morte; quando il programma in senso autentico, spirituale, finisce veramente, la morte subentra. Essa può tardare di qualche – anno, ma non si va molto al di fuori dei limiti del “programma”. Ora, naturalmente, nessuno di voi lo sa tutto questo, quando invece la morte non viene e quando si ha soprattutto la coscienza che c’è un blocco, un macigno che impedisce l’evolversi, lo sviluppo della propria personalità e della propria vita, allora è segno che ci sono delle cause ben precise che non dipendono dal programma, ma che dipendono dall’io che si è bloccato; voglio dire che mi sembra doveroso a questo punto anche andare a cercare le cause di questi blocchi per tentare di risolverle, e non pensare che, poiché la vita si è ridotta a una vita vegetativa, per esempio, ci si debba o ci si possa suicidare; questa non è una soluzione.
E non ne voglio fare una questione di tipo morale: che il suicidio è immorale, che si soffre dopo, no, lasciamo perdere tutto questo; perché, sì, è vero, chi lo fa, dopo soffre di questo suicidio, però onestamente devo dire che alla fin fine questa sofferenza finisce e che, tutto sommato, non è questa la questione principale, che è un’altra e che io chiamerei pratica: vedete, quando voi venite sulla Terra vi trovate in concomitanza (che ci crediate o non ci crediate, fa lo stesso) con un numero enorme di altri esseri spirituali che devono venire sulla Terra per fare questa esperienza; ve ne sono tanti, i numeri qui non bastano, siamo su di un ordine altissimo; esseri che possono e devono aspettare un numero incredibile di anni perché la Terra non ha grande spazio. Ora, quando finalmente ci si riesce a inserire in un circuito di evoluzione, diciamo pure che bisogna cercare di conservarselo finché è possibile.
Tutto questo voi non lo sapete e neppure lo dovete sapere, perché sulla Terra voi dimenticate il vostro passato e sul vostro futuro non avete che dubbi; però io veramente posso dire che dopo aver spezzato la propria vita, suicidandosi per scelta, veramente ci si pente di questo fatto, di aver sprecato una vita. Ora a me sembra che prima di andare incontro a un fatto così importante, perché volontario – quello del suicidio – sia doveroso verificare tutte le cause che hanno portato a un blocco del genere, e chiedersi anche se il solo fatto di meditare a freddo e razionalmente sul proprio possibile suicidio, sulla propria vita o sul blocco che è sopravvenuto, non sia un proseguimento di vita razionale e lucido che consente di dominare se stesso, di autogiudicarsi e di vedere le cose con occhio distaccato: se non sia una forma d’intelligenza, per quanto disordinata possa essere o non equilibrata perfettamente, ma comunque una forma di lucido realismo che giudica se stesso. Cioè, voglio dire che, se quando si razionalizza la propria esistenza e il proprio io viene visto lontano, fermo. immobile, vegetante, se questo disporsi a una certa distanza non sia già un segno della nostra intelligenza, una sorta di scissione per cui la vita andrebbe continuata forse soprattutto per vedere meglio questo io navigare, magari senza una chiara bussola, perché a mio criterio c’è sempre una soluzione per tutto.
Naturalmente c’è chi dice che una delle soluzioni può essere la morte, ma la morte è una negazione della vita per voi che siete in Terra, è una negazione della vostra vita, e su questo non c’è dubbio; voi potete continuare a vivere dopo, ma non c’è dubbio che come uomini siete morti, cioè che non siete più degli esseri in un corpo materiale, e che questo tipo d’esperienza voi non lo potete fare dopo, ma lo potete fare soltanto ora che siete in Terra. Dopo ne farete altre, saranno più belle, più grandiose, usate gli aggettivi che volete, ma queste però non le potrete fare più, per cui vi conviene sempre sfruttare la vita, fin che ci siete. Io non credo che ci siano delle vite estremamente dolorose, credo che ci siano delle vite estremamente disordinate che fanno soffrire molto, al punto da raggiungere uno stato di follia pura o di subfollia, e che da questo trono che ci si erige, l’io sembra far crescere dentro di sé un desiderio di distruzione di se stesso che poi è sempre il segno di un certo tipo di viltà, che non riesce a manifestarsi in pieno, nel non affrontare fino in fondo quella che è la propria situazione esistenziale.
Naturalmente io voglio dire anche che si comprendono pienamente certi tipi di suicidio, cioè si può capire il suicidio come libera scelta, ma dello Spirito, il fatto è che non è quasi mai una scelta dello Spirito, ma una scelta della materia, è la scelta di una particolare disposizione della mente, neppure della materia in sé stessa, perché essa non rifiuta la vita, anzi si lega sempre più alla vita, e si può dire che sia talvolta più difficile morire che vivere. L’attaccamento alla vita è un fenomeno di natura biologica, è la mente che poi si sovrappone e guarda in maniera distorta sé stessa e crede di risolvere il problema così, con un sonno chiamato “eterno”, e che poi eterno non è, perché ci si sveglia, ve l’assicuro, ci si ritrova senza la vita umana e allora, in quel momento, si capisce pienamente l’errore; perché, diciamo, lo Spirito ha molto lottato per venire in Terra e poi si ritrova con una scelta non fatta da lui, perché lo Spirito queste scelte non le fa, perché la morte deve avvenire secondo una funzione naturale: le circostanze ci sono sempre per morire, quando il programma è finito.
Quando finisce il programma voi non lo potete sapere, mai, tant’è vero che c’è gente che magari vecchia, a tardissima età, continua ancora a produrre. E si può produrre in molti modi, talvolta anche con la sola presenza; si proietta l’esperienza anche col solo fatto di esserci ancora, ecco che si spiega come persone apparentemente vecchie, vecchissime, servano. Sembra che esse non servano a nulla. Relegate su di una poltrona, su di un letto, esse non si possono più muovere, sono semiparalizzate; a che servono questi vecchi centenari? Sì, non servirebbero a niente, in effetti, non servono più a sé stessi, potrebbero benissimo morire, ma chi può negare che la loro stessa e sola presenza condiziona la vita degli altri, crea esperienza agli altri, anche esperienza di contrasto, esperienza di animosità. Ecco che molte cose vi sfuggono, troppe cose, e riducete sempre la vita a un certo tipo di fatti e di cose (Si è cioè fortemente legati a una concezione solo umana che condiziona pesantemente la visione psicologica ed esistenziale senza vedere e concepirne altre di tipo diverso. – Nota del curatore).
Io dico che bisogna vivere proprio perché conviene vivere, cioè la vita in sé stessa può anche essere bella o brutta, ma non ha senso definirla con aggettivi di questo genere. Dico che la vita è un’utilità, non ha bellezza o bruttezza in sé, è un fenomeno utile che consente a tutti di effettuare una serie di esperienze e di fatti, di svolgerci, comunque di manifestarci, di essere presenti; e poiché noi abbiamo legato a una certa funzione vitale un certo tipo di esperienza – quella di tipo umano – poiché quando ci si incarna non si conosce il proprio passato e il proprio avvenire, il solo riconoscere sé stessi è già un motivo sufficiente per far continuare questo processo di identità e allontanarci sempre più, finché è possibile naturalmente, dal fenomeno morte. Perché è doveroso usare il proprio corpo, rispettare questo corpo, cioè conservarlo e difenderlo finché è possibile.
Questo è un argomento trattato veramente in maniera velocissima: poi, è chiaro, ciascuno ha una sua struttura, con i suoi problemi, i suoi drammi, le sue situazioni esistenziali che vanno analizzate, chiarite, delucidate, e non c’è ragione o causa che non possa emergere. Se non emerge è perché non c’è tempo, non c’è modo, perché l’approccio tecnico è insufficiente, ma tutto ciò che è dentro di voi è causa di contrasto con la vita può essere chiarito a chi lo voglia.
D. – Dunque, collegandomi un po’ al discorso di prima, facevo questa considerazione: quando si parla di morale, di sessualità, quando si parla di nevrosi, quando in generale si parla cioè di un progetto sociale, si prende sempre come punto di paragone, come pietra miliare della società, e quindi della morale, la famiglia, e si fa la considerazione che in un certo senso la famiglia è il primo nucleo della società e che se la famiglia così com’è congegnata si spezzasse ci sarebbe anche un disordine sociale. Ora mi domando, se invece in una visione un po’ futuribile di un nuovo tipo di società, e quindi di un nuovo tipo di morale e di vissuto della sessualità, non sia auspicabile quella che oggi si chiama l’apertura della famiglia, cioè la famiglia vista come una serie di elementi, più uomini, più donne, una comunità, i quali appunto convivono come adesso si fa sperimentalmente nelle comuni ecc. Volevo sapere se effettivamente in una società più matura questo dovrebbe essere o potrebbe essere un inizio della soluzione dei problemi che ci travagliano a livello di nevrosi, complessi edipici ecc. e dei problemi che ci travagliano a livello di falsi schemi morali.
A. – Bisogna tener conto che tutte le leggi che esistono sulla Terra sono perfettamente collegate a tutto il sistema di vita della vostra civiltà. Voglio dire che nell’ambito di queste leggi se salta la famiglia, salta tutto il resto, cioè tutto è stato creato intorno a questi nuclei familiari: basti pensare ai rapporti umani, basti pensare al codice civile e al codice penale, tanto per intenderci; ora è anche vero che le famiglie come gruppi chiusi, così come sono sempre stati concepiti, sono portatori di ampie e profonde nevrosi, perché l’uomo non è nato per vivere in un gruppo chiuso, ma dal punto di vista biologico deve vivere in mezzo agli altri e psicologicamente cerca gli altri; pensate semplicemente ai bambini che crescono soli e guardate i bambini che crescono in collettività: i bambini soli sono afflitti quasi sempre da qualche turba psichica, quelli invece che crescono in un ambiente fortemente socializzato presentano più raramente certe turbe di comportamento. Dunque già questo esempio basterebbe a far capire come il concetto di famiglia “chiusa” sia sbagliato. Naturalmente c’è però da dire che bisogna anche stare attenti a non tornare a una sorta di tribù, questo non perché la tribù in sé stessa non trovi certi consensi e certi valori sociologici, ma proprio perché la tribù può caricarsi fortemente di una visione anarchica della vita, che è un aspetto un po’ negativo, sotto alcuni punti di vita. Non è affatto necessario distruggere il concetto di famiglia, inteso come padre e madre come enti procreatori e figli come enti procreati, questo va benissimo così: è l’atteggiamento psicologico all’interno di questi gruppi che deve mutare. Naturalmente vi dirò che, mutando questi atteggiamenti, il circuito di tipo familiare si spezza. Se per famiglia s’intende un fatto in base al quale gli esseri procreati sono deputati naturalmente al governo dei figli, e questo sine die, esso è sbagliato, cioè se si concepisce la famiglia nel senso autoritario del termine, cioè con padre e madre che hanno il potere assoluto, questo è assurdo, questo porta veramente alla nevrosi, e, in seguito, alla distruzione della civiltà stessa, come d’altra parte si è verificato da voi. Se invece s’intende la famiglia come nucleo vivente, allora siamo perfettamente d’accordo: la famiglia come nucleo vivente è un complesso che si muove più o meno armonicamente nella libertà di tutti.
Forse il termine famiglia deve tendere a scomparire perché è fortemente sospetto; la famiglia, proprio per definizione, indica quasi sempre un gruppo chiuso e questo fatto è fortemente negativo; già definendolo gruppo familiare togliamo l’aspetto negativo che quasi sempre sorge in coloro che guardano più avanti. Un gruppo funzionante, un gruppo procreante; in questo senso io concepisco allora non il padre, ma l’amico del figlio, non la madre ma l’amica del figlio; il semplice fatto di aver dato alla luce dei figli non autorizza proprio nessuno a essere i capi e i despoti di questi figli, semmai deve far sorgere un rapporto di amicizia, protettivo finché si è in crescita e che diventa parità amichevole. In base a questo rapporto tra figli e genitori nasce una vita di gioco, cioè una vita che va avanti in armonia, in cui l’affetto è un elemento che, c’è o non c’è, non guasta il rapporto esteriore. Allora, in questo senso, la famiglia
antica non c’è più, ci sono degli esseri che funzionano come amici, fanno delle esperienze insieme, si divertono; soffrono insieme, lavorano insieme agli altri. Il nucleo familiare, se c’è, rappresenta un rapporto di maggiore simpatia, di maggiore attrattiva o di unità di tipo economico, ma non di tipo dominante.
D. – Quando si concepisce la famiglia come mutuo scambio, quando si dice appunto che, automaticamente, per questa situazione la famiglia si apre, crolla il discorso del vincolo a livello sessuale, cioè i coniugi non si devono appartenere a livello sessuale, e l’esclusività sessuale non esiste più.
A. – Ma, vedi, questo problema sessuale è un problema che proprio vi siete inventato…
D. – Per questo è bene precisarlo.
A. – … Perché è un problema principe. Ritorna sempre e dovunque ed effettivamente io so che questo problema sessuale ha condizionato per millenni miliardi di uomini, mentre non è altro che uno pseudoproblema, ed è nato proprio quando gli uomini hanno cominciato a dominare la donna e quando esse sono diventate oggetto di possesso esclusivo. Ecco che allora sono scattate tutta una quantità di diatribe su questa questione; quindi la donna-oggetto, la donna propria, la donna non di tutti, la donna come oggetto che non può essere ceduto, così come non poteva essere ceduto il proprio sgabello o il proprio braciere. Ora voi capite subito che tutto questo nasce da prevaricazione, da un atto di forza, di imposizione, quindi di autentica dittatura biologica che ha creato poi la disparità tra i due sessi, una disparità che si è poi intellettualizzata, storicizzata, mitizzata ecc… Ecco perché poi, queste donne venivano acquistate in pratica sin da piccole. Da questo nasce per esempio il mito della verginità, perché l’unica prova che la donna non fosse appartenuta a un altro era solo questa verifica, non essendocene altre possibili; trattandosi di una cessione di proprietà, tale proprietà integra veniva data sin dalla nascita, quindi ecco il mito.
Cosa posso dirvi su questo problema? È un problema che spiritualmente non si pone, che non esiste, è un vostro pseudoproblema, l’avete trovato così, naturalmente, lo usate così, tentate di sovvertirlo, ma ricordate che questo è un problema che non sovvertite voi uomini, ma proprio le donne, cioè questo è veramente un problema che sarà annullato e messo da un canto proprio a causa della rivalutazione del ruolo femminile, che elimina da sé la definizione di oggetto e si riqualifica in parità, non dovendo proprio nulla all’uomo, ma presentandosi perfettamente alla pari. Naturalmente per poter far questo la donna deve liberarsi di tutto quanto si è accumulato, psicologicamente, ereditariamente, culturalmente, e non è un lavoro facile, è un lavoro che deve soprattutto vincere la profonda ostilità dell’uomo, perché io sono convinto che qui esiste una profonda ostilità dell’uomo. Gli uomini – almeno una parte – possono atteggiarsi a democratici e avanzati, in realtà anche in essi si muove quella molla ereditaria di cui abbiamo detto e che tende al possesso, all’usurpazione, che tende naturalmente a pesare fortemente sulla libertà del sesso femminile. È un fenomeno reciproco di liberazione, attuato il quale, voi sarete molto, molto più felici, perché è veramente a causa di questo problema che deriva un’alta percentuale delle vostre sofferenze.
D. – La donna certamente non è fatta soltanto per procreare, mentre è considerata quasi totalmente da questo punto di vista.
A. – Naturalmente no. Dico che esiste l’istinto della maternità, e che è più un istinto-bisogno, ma è soprattutto allo stato attuale della vostra specie che si verifica un’influenza psicologica che sovrasta anche gran parte dell’istinto biologico; in realtà qui c’è una sorta di mascheramento, a volerci parlar chiaro. Il mascheramento è dato dal fatto che, spesso, l’istinto sessuale viene scambiato per istinto biologico, questo è il punto; ora non che l’istinto sessuale non sia biologico, ma è tale nel senso autentico della sessualità pura, però poi viene “moralizzato” e fatto passare per istinto di maternità, in senso più romantico, mentre spesso non si tratta affatto di un vero bisogno di aver figli, ma solo del bisogno di avere un’attività sessuale.
D. – D’altro canto c’è poi la funzione che diventa emozione.
A. – C’è da tener presente che esiste anche l’istinto alla paternità, intendiamoci, perché non esiste solo la donna che vuole figli, esiste anche l’uomo che li vuole, e d’altra parte non vedo perché dovrebbe essere diversamente. Naturalmente, nell’uomo questo istinto è più mascherato, anche perché lo avverte di meno. C’è da chiedersi però quanta influenza storica e psicologica ci sia nella costituzione di questo istinto. Che un istinto latente esista nell’uomo e nella donna è fuori di discussione, altrimenti non si avrebbe la riproduzione, ma che questo istinto latente, che agisce naturalmente, venga poi razionalizzato, incanalato e definito romanticamente nella donna e più prosaicamente nell’uomo, questo è un artificio della cultura e del mito, senza alcuna consistenza. Ma tu alludevi evidentemente al discorso sulla fissità delle scelte.
In realtà, mentre la propria liberazione in senso sessuale la donna la vede molto più lontana e irraggiungibile, portandosi dentro tutta una serie di inibizioni e di complessi, vede invece come raggiungibili altri obiettivi, sia pure limitati, ed è logico che in senso psicologico tenti disperatamente di raggiungere quelli più vicini. Ed ecco che, aggrappandosi a questi obiettivi, essa li persegue con la fissità di cui dicevo prima, con una sorta di caparbietà, e quindi anche con linearità, spesso ottenendo dei risultati maggiori dell’antagonista maschio, nella stessa esperienza. E in questo senso dunque che si finisce col ricavare l’impressione che la donna raggiunga più facilmente i suoi scopi, appunto in virtù di una maggiore volontà.
D. -Come si può concretamente integrare in una vita sociale questo modello di donna quale dovrebbe venir fuori da un discorso nuovo?
A. – A me non sembra che sia un discorso tanto nuovo; voglio dire che la parità tra i sessi – e parità vuol dire naturalmente uguale libertà – può portarli un po’ alla volta a una perfetta parità per quanto riguarda l’estrinsecarsi della personalità, dell’intelligenza, della cultura. Naturalmente bisogna anche dire che la struttura femminile, per tutta una serie di ragioni biologiche, può condurre la donna a un uso della vita diverso da quello dell’uomo. Per esempio, la donna può essere adatta a un tipo di lavoro diverso da quello dell’uomo, in questo senso non c’è disparità, perché ciò si verifica anche all’interno dello stesso sesso; quella che deve mutare è la concezione di un tipo di lavoro subalterno a un altro, che è una disposizione psicologica, mutata la quale, veramente gli uomini si sentiranno uguali e fratelli. Il male è considerato il lavoro di un altro essere subalterno e inferiore, perché questo allontana dal principio di fratellanza. Ora, essere uguali o fratelli non significa fare la stessa cosa, ma semplicemente accettare che ciascuno abbia un ruolo, sia pure diverso, nella società, e il fatto che ciascuno è importante in quel ruolo e per quella fase di vita.
D. – Quindi disparità di funzioni, ma uguaglianza di valori.
A. – Uguaglianza di valori, sì. È come se io dicessi: quell’essere mi è inferiore perché è un po’ meno intelligente: non ha senso! Un uomo può essere più o meno intelligente, può essere più o meno bravo, più o meno buono, il fatto è di riconoscersi fratelli “dentro”. Secondo la vostra e nostra concezione spirituale, noi poi sappiamo che gli uomini sono veramente fratelli “dentro”, in senso universale, perché sono spiriti; ma anche ignorando questo, non potendo fare un discorso da spiriti, in quanto essere vivente ciascuno è una parte di questa grande catena umana, in cui un anello vale l’altro, anche se uno sta più avanti e l’altro più indietro. Naturalmente c’è l’anello che tira e quello che si fa tirare, questo accade, ma è interiormente che bisogna sentire questa comprensione anche per chi non ce la fa e ha bisogno di aiuto, senza sentirsi superiore per il solo fatto di dovergli porgere la mano per tirarlo su: questo, che poi è un concetto cristiano, è veramente un concetto fraterno che va anche al di là del cristianesimo.
D. – Vorrei sapere se veniamo sulla Terra con un arco di vita prestabilito.
A. – Sì, all’incirca, ma non con la massima precisione. In un certo senso lo Spirito prevede, in base al programma, quanto tempo dovrà restare in Terra; questo tempo però è approssimativo, elastico. L’approssimazione può anche coprire un arco di dieci anni in più o in meno, così come accade che qualche volta lo superi. Diciamo che, a un certo punto, lo Spirito, pur avendo cessato il programma, può decidere di restare ancora, allora può essere superato il limite che egli si era prefissato. In un certo senso “non c’è fretta di morire”. Qualche volta però lo Spirito può scegliere un programma ristretto perché di più non gli occorre e qualche volta lo spazio diventa ristrettissimo: pensate ai bambini che muoiono, che è una cosa per voi estremamente penosa, naturalmente, ne convengo. Però allo Spirito può essere necessario uno spazio veramente brevissimo.
***
D. – C’è una cosa che non ho ben capito: se uno Spirito non è all’inizio dell’evoluzione, ma neanche all’ultima incarnazione, ed esaurisce il programma, può iniziare una parte di programma futuro nella sua vita attuale?
A. – Dovreste vivere duecent’anni per fare un paio di vite insieme, ma non sarebbe un problema. Effettivamente, si potrebbe vivere un po’ di più e sommare due o tre programmi insieme…
D. – Due o tre forse sono troppi…
A. – Hai detto giusto, due o tre sono troppi. Vedi, la questione è proprio questa, di doversi ritrovare privo delle sovrastrutture per poter fare un’analisi effettuale precisa. Finché ci sono le sovrastrutture lo Spirito non può operare una sintesi, non ne è capace, ed ecco che è necessario morire, per ritrovarsi in una situazione in cui ci si possa autogiudicare. Potrebbe, per esempio, giudicarsi dopo un paio di programmi realizzati e dopo un programma più esteso? Devo dire che i programmi sono sempre estesi, solo che poi, in concreto, se ne realizza meno, e sono estesi perché lo Spirito, non conoscendo esattamente i termini dell’opposizione umana, cioè della sovrastruttura, fa dei programmi più ampi, e un po’ perché sa che la vita ha una sua elasticità in base alla quale egli potrebbe sfruttare un tempo maggiore. Infatti il corpo potrebbe trovarsi in buone condizioni e continuare a vivere, pur essendo cessato il motivo fondamentale della vita. Ma c’è sempre un residuo di programma, una sorta di “programma di riserva”, qualcosa in più che lo Spirito può sempre fare. La vita in realtà non basta in genere a esaurire tutto il programma dello Spirito, questo è il punto; il programma copre normalmente un arco di tempo abbastanza ampio, ma vi possono essere programmi che vengono condensati e sintetizzati per circostanze impreviste, e la vita anche in questo caso si abbrevia.
Diciamo che la lunghezza della vita dipende da una serie di circostanze spesso estranee alla volontà dello Spirito. Intanto, egli non domina completamente il fenomeno vita: essa infatti può finire prima del compimento del programma per un incidente qualsiasi: una malattia, un’epidemia, un fatto imprevisto, oppure essa va bene e potrebbe andare avanti; non dico all’infinito, ma fino a un’età veneranda; in questo caso lo Spirito si trova nella necessità di prendere una decisione, se spegnere la vita, creando un motivo per allontanarsi, oppure continuarla, magari in modo più vegetativo, se veramente il programma è ampiamente superato, e talvolta si opta per un proseguimento della vita.
Chi effettua la decisione? La decisione viene presa dallo Spirito “nell’uomo”, cioè da voi, inconsciamente, in rapporto con lo Spirito Guida; dalla combinazione dei giudizi nasce la decisione. Può darsi che ci siano delle decisioni indipendenti, cioè che lo Spirito decida indipendentemente da qualsiasi altro giudizio. A questo punto si può pensare che una decisione dello Spirito di continuare in qualche modo la vita, può essere ostacolata. Questo succede, raramente, ma può accadere che una diversa decisione venga presa da altri, più in alto, che decidono per un’interruzione o per la prosecuzione della vita.
D. – Ma se lo Spirito è nella sovrastruttura come fa a decidere?
A. – Questo viene effettuato naturalmente all’insaputa della sovrastruttura, voglio dire che lo Spirito, in fondo, ha un minimo di autonomia…
D. – … può liberarsi…
A. – … sì, e questo si verifica (ve l’abbiamo detto) anche durante il sonno, e quindi allora che viene presa la decisione.
D. – È a causa della sovrastruttura che uno Spirito, qualora venga a esaurirsi un’esperienza breve, non può cedere quel suo corpo a un altro Spirito?
A. – Attuando uno scambio di spiriti?
D. – Sì, questo è l’unico ostacolo, o ve ne sono altri?
A. – In teoria questo sarebbe possibile, perché tutto sommato non c’è nessun ostacolo di natura morale, c’è solo un ostacolo di natura funzionale, e cioè pratico. In definitiva, l’esperienza della materialità viene fatta a cominciare dalla formazione di tutto il reattivo e del complesso psichico; se si priva lo Spirito dell’atto costitutivo della psiche, lo si priva di gran parte delle decisioni, delle responsabilità, e delle scelte, e che cosa farebbe allora? Metterebbe in pratica solo certi comportamenti senza poterli vivere interiormente, neppure a livello di segnali. In realtà, tutti i segnali, dell’esperienza passano allo Spirito sin da quando siete piccoli; tutta questa fase preparatoria non andrebbe allo Spirito. Se si potesse superare tutto, sarebbe anche inutile la vita, cioè basterebbe tenere sulla Terra soltanto un numero piccolissimo di uomini, i quali trasmetterebbero telepaticamente agli altri spiriti le esperienze e questi se ne impadronirebbero. Non è solo il gesto, il fare l’esperienza che conta, ma è tutta l’elaborazione interiore di scelta, di decisione e di accettazione o di rifiuto dell’esperienza, ma se non c’è un precedente non c’è neppure motivo né di accettarle, né di rifiutarle, le esperienze.
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D. – In un’esperienza di sdoppiamento c’è il pericolo di non poter più rientrare nel corpo?
A. – È estremamente raro che possa verificarsi la morte nello sdoppiamento.
D. – Più che morte, un impedimento a rientrare.
A. – Un impedimento può essere solo di natura tecnica, ma anche questo è estremamente difficile, perché, vedi, lo Spirito si trova sempre strutturato in una “forza animica”, la quale è collegata al corpo mediante un’energia, con quel famoso cordone chiamato “perispirito” che in realtà nasce da un rapporto di forze. Ora il fatto che non si possa più rientrare può dipendere da un impedimento di natura tecnica, psicologica, di un esercizio mal fatto, da una serie di passaggi ai quali il corpo, la psiche o lo Spirito non si sono condizionati ecc.
Oppure dipende da un perturbamento rapido, che può essere elettrico, bioelettrico: sono eventualità estremamente rare, ripeto, che possono verificarsi soltanto in condizioni di autentico sdoppiamento, di autentico spostamento nello spazio tempo. In genere, le meditazioni che non raggiungono una grande intensità non offrono neppure dei pericoli di questo tipo; vi possono essere degli altri pericolo di tipo psicopatologico, ma pericolo che possa subentrare la morte, no. Un rallentamento può esserci, ma in questo caso, tutt’al più, ci si reintegra con un po’ di fatica, ma si ritorna sempre nella condizione normale. D’altra parte, devo sottolineare che esiste comunque un limite di pericolosità per questi esperimenti, non sono cose che si devono fare a cuor leggero e senza un’adeguata preparazione: è una questione di misura: psicologica e spirituale. Bisogna sempre saper autocontrollarsi esattamente e non andare oltre i limiti del controllo, non tentare cose straordinarie per il solo gusto di farle. Bisogna prepararsi coscienziosamente, con serietà, facendo tutto per gradi, e in questo caso i pericoli si riducono quasi a zero.